Cosimo Servodio
"Il Paese Errante"
a cura di Domenico Maria Papa — 23 Giugno, 2017
Il Paese Errante è il titolo di un breve racconto di Cosimo Servodio e, al tempo stesso, di un ciclo di lavori che a quel racconto fanno riferimento, pure rimanendo la scrittura visivo su registri autonomi. Il racconto, infatti non spiega le opere e queste non sono illustrazioni del racconto. É questo un primo elemento che caratterizza la ricerca attuale di Cosimo Servodio. Attuale anche in senso generale:sempre più spesso assistiamo ad attraversamenti di ambiti espressivi diversi da parte di autori che sentono i confini disciplinari come una frontiera permeabile. Ad esergo del racconto, Cosimo cita il Barone rampante di Calvino e offre un rimando che va oltre l'immediata assonanza tra il libro e il titolo del racconto dell'artista. Calvino rientra nelle atmosfere del lavoro di Cosimo Servodio anche per una sottesa citazione alle Città invisibili. Tra quelle visitate da Marco Polo, infatti, avrebbe potuto ben figurare il Paese errante, un paese che ribalta la visione abituale di luogo verso il quale si torna per trovare delle radici. Nel racconto di Servodio è piuttosto il paese che si muove per non morire e per ricordare agli uomini che il luogo che si abita si nutre d'amore. Il paese errante, però, a differenza di una città calviniana non è una geografia distante, esotica, non è unastoria favolosa raccontata alla corte del Khan, ma è un territorio noto, vicino, dolente quello dell'Irpinia che ancora soffre le ferite del vecchio terremoto. Il fatto è che quelle ferite non si sono mai rimarginate perchè mai sono state curate. é, si sa, quando di un paese non ci si cura, quello si stanca della trascuratezza degli uomini. E se ne va. Cosimo Servodio scrive, ma è soprattutto un artista. Sull'idea del paese errante mette in scena una rappresentazione che è un'architettura muta collocata in paesaggi di linee essenziali. Le case non hanno aperture. Si levano da sole o in minime associazioni, con profilo che dice tutto quello che c'è da dire. Cioè poco, a noi che le guardiamo. E infatti, come è ricordato nel racconto, abbiamo dimenticato la loro lingua.
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